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Complimenti a Bruno Conti

Per onorare come si deve il Campione del Mondo ’82 ma soprattutto Campione d’Italia ’83, vi proponiamo il bellissimo articolo del Prof. Paolo Marcacci, pubblicato sul numero 335 della nostra Rivista, in cui ci ‘canta’ la storia di quel ragazzo nato a Nettuno, ma poi diventato il Re di Roma. 

Il direttore e la redazione tutta fanno i più sentiti complimenti per l’ennesimo premio ricevuto da Bruno Conti, un grande giocatore, un eccellente dirigente, ma soprattutto un grande amico della nostra Rivista… 


LA ROMA 335 (Novembre 2017) – HALL OF FAME di Paolo MARCACCI

Partiamo dai segni zodiacali: per chi è convinto che determinino il corso delle nostre vicende e per chi, semplicemente, si sforza di pensare che sia così; che, a volte, più del credere è importante il voler credere, magari proprio quando il destino sembra aver emesso i suoi verdetti. Magari dopo un provino in cui chi ti ha giudicato non ha compreso che hai qualcosa in più e di diverso rispetto a tutti gli altri.

Cominciamo col segno dei Pesci, allora, da quell’indole nata per sorprendere, da quell’istinto di non volere né potere mai procedere in linea retta. È il segno del dribbling, del percorso che scioglie i suoi nodi proprio quando agli occhi degli altri sembra farsi più complicato e tortuoso; della palla che scompare proprio quando ti sembra che il piede del difensore abbia azzeccato il tempo per spegnere sul nascere un tiro che improvvisamente non c’è più, nascosto agli occhi e alle caviglie degli altri.

Si può dribblare anche il destino, dunque, se hai dentro, da quando sei nato, la voglia e l’esigenza di ripartire da una linea di fondo, che per gli altri è confine, per te un’occasione. Anche se il dio Nettuno ti voleva col guantone e il cappellino, con la mazza e le basi da conquistare. Ma un’erba diversa meritava la tua corsa, e un prato di calci che quasi mai ti prendono e di contrasti che il più delle volte muoiono nell’aria di una tua magia.

Perché tu sei Bruno Conti. Anzi, Brunoconti, tutto attaccato, quasi senza voler conoscere i confini del nome e del cognome: quattro sillabe, il tempo di una finta.

Deve pur esserci un motivo, se pensando ad alcuni giocatori o scrivendo di loro, ci si ritrova a dargli del tu: sarà forse perché hanno comunicato emozioni così intense, così assolute da portarci a creare una confidenza immaginaria, condivisa da tutto un popolo: di Bruno ce n’è uno, del resto e già nel coro l’uso del nome proprio connotava un rapporto.

Bruno Conti, “limitandosi” a parlare del calciatore e tralasciando lo straordinario lavoro da dirigente e talent-scout, è storia del calcio che fugge sulla fascia, cambiandola, quella medesima storia – ma anche alternando quella fascia – col un piede sinistro che è prodigio, cilindro magico, lampada del genio. E il genio è sempre un gigante, anche se non arriva a un metro e settanta, anche se i più grossi in campo lo picchiano, lo sovrastano, si sentono in diritto e in dovere di mettergli paura. Quando il resto del mondo ancora non sa che la maglia numero sette è un’armatura e la fantasia una spada che trafigge qualsiasi perplessità sui pochi chili e centimetri, Nils Liedholm è già impegnato a convincere Bruno che il fisico conta, si, ma fino a un certo punto: conta per tutti gli altri, per il resto del mondo che non sa e non riconosce il privilegio dei predestinati. Grazie al Barone, quando ancora non ci sono i vent’anni d’età, c’è già l’esordio nella massima categoria: il 10 febbraio 1974, contro il Torino, Conti si presenta alla Serie A. Da quel primo passo contro i granata di Paolino Pulici, comincia un viaggio che terminerà nel 1991, in un delirio d’amore e d’immediata nostalgia.

Incrociando le linee del tempo, in un groviglio di ricordi che assomiglia al caos apparente di uno dei suoi dribbling, ci piace partire proprio da quel 23 maggio del 1991, giorno in cui l’Olimpico trabocca d’amore, commozione, gratitudine, ricordi indelebili. Il saluto di un fuoriclasse come pochi altri se ne sarebbero visti in futuro: lo stadio lo sa già e comincia a rimpiangerlo sin dal momento in cui si gode le sue ultime, inimitabili serpentine. A rendere ancor più speciale quella serata, un particolare che testimonia l’unicità dei tifosi della Roma: soltanto ventiquattrore prima sullo stesso terreno si era disputata la finale di ritorno della Coppa Uefa, tra Roma e Inter. L’uno a zero firmato da Rizzitelli non basta a pareggiare il conto con i due goal nerazzurri dell’andata: ancora una volta, sono gli avversari ad alzare un trofeo in casa nostra. Ebbene, la sera seguente a una finale europea, il pubblico è leggermente più numeroso: Bruno Conti vale più di qualsiasi vittoria e di qualsiasi trofeo, anche di quella Coppa dei Campioni che il 30 maggio del 1984 cominciò a sbriciolarsi proprio a causa del suo errore dagli undici metri, durante la serie dei rigori contro il Liverpool, dopo che nei centoventi minuti di partita era stato uno dei migliori tra i ventidue in campo. Meglio che sia toccato a lui – prima dell’errore decisivo di Ciccio Graziani – che a qualcun altro: da parte giallorossa, lo si è accettato più di buon grado, perché si sopporta meglio un dolore, quando è causato da un figlio prediletto. Del resto un rigore è quanto di più banale ci possa essere, per chi è abituato a scrivere la storia senza mai procedere in linea retta. Anzi, cambiando sempre, all’ultimo momento, il lato da cui tutti aspettano che arrivi qualcosa. Qui torna in ballo il segno dei Pesci, che si realizza soprattutto nella rappresentazione del suo contrario: non è un caso che uno dei suoi goal più belli e importanti Bruno lo realizzi di destro, ai mondiali spagnoli del 1982. È il 18 giugno, l’Italia di Enzo Bearzot affronta il Perù a Vigo. Al minuto diciannove, Conti, appostato qualche metro indietro rispetto alla lunetta dell’area di rigore, riceve palla in orizzontale dal lato sinistro: il marcatore che prontamente esce per impedirgli la conclusione, non capirà – del resto facciamo fatica, ogni volta che lo rivediamo, a capirlo noi – quanto gli accade; una finta a cui l’occhio di chi guarda non riesce a stare appresso, un dribbling con il tacco che incenerisce il malcapitato e prende per mano il ricordo di Garrincha; a quel punto sul lato destro si spalanca l’angolo per il tiro. Ma non è il suo piede. Non era? Sono le ovvie domande degli umani, dove giocano gli dei certi dubbi non hanno luogo: parte un fendente di destro, con traiettoria leggermente a uscire, che Quiroga può soltanto ammirare, ammesso che riesca a vederlo.

In quel campionato del mondo, in cui il livello tecnico medio era così elevato da non essere più raggiunto da nessun’altra rassegna iridata in seguito, Bruno Conti è il giocatore che stupisce di più, in senso assoluto. Il primo a stropicciarsi gli occhi e a spendere giudizi entusiastici per lui è un signore di nome Pelè. Del resto, basta pensare alla sua incidenza nella finale contro la Germania: guadagna il rigore poi fallito da Cabrini, partecipa all’azione del goal del raddoppio di Tardelli, conduce l’azione che porterà Altobelli a siglare il terzo goal azzurro.

Se un giorno, oltre alla Hall of fame del club, della quale ogni mese abbiamo il privilegio di raccontarvi una storia, qualcuno dovesse inaugurare una galleria delle facce, cioè dei volti che più di altri hanno incarnato la Roma, quella di Bruno Conti, caschetto di capelli scuri, sguardo furbo e timido al tempo stesso, avrebbe di diritto il suo posto. Non è un caso che sia stato il giocatore preferito da Gianni Brera, penna da narratore sublime prestata al calcio, che amava raccontare a colpi di neologismi geniali e dotte citazioni. Brera chiamava Bruno “Il mio pelasgio”, dal nome dell’antichissimo popolo di origine greca che si insediò anche sulle coste meridionali del Lazio e paragonava i suoi giochi di prestigio sulla fascia alle delicate evoluzioni che i gatti fanno compiere ai gomitoli di lana. Ma, a proposito di penne prodigiose, la migliore definizione del gioco di Conti la fornì Vladimiro Caminiti, altro scrittore prestato alla cronaca sportiva: al termine di uno Juventus-Roma ebbe a scrivere che, a furia di vederlo portare a spasso per il campo l’intera difesa bianconera che non riusciva mai a prenderlo, a un certo punto si sentì trasportato anche lui.

Forse a tutti noi, che l’abbiamo visto e vissuto, è capitata la stessa cosa: ci ha presi per mano e portati a spasso lungo una fascia infinita, ebbri d’euforia per i capogiri dovuti alle sue finte, bambini per sempre ogni volta che ci torna in mente il suo modo di nascondere la palla. L’essenziale, diceva il piccolo principe, è invisibile agli occhi. Senza saperlo, stava parlando di un dribbling di Bruno Conti.

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