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PENSIERI E PAROLE di Paolo MARCACCI

Poche cose fanno più male, nella vita, della rinuncia forzata a ciò che si è già dimostrato di meritare. A ciò che si era già guadagnato sul campo: mai espressione fu più azzeccata.

Abdullahi Nura sembrava avere le stimmate del predestinato, come aveva capito Walter Sabatini avendolo visto a La Spezia poco più che bambino. Ora dovrà imparare a convivere, vita natural durante, con le cicatrici della rinuncia.

Qualcuno potrà obiettare che quando si hanno così pochi anni è facile reinventarsi la vita, ricominciare da capo, ripensare il proprio destino. Nella vita della maggior parte delle persone, certamente; nell’esistenza della gente cosiddetta “normale”, definizione che usiamo per comodità anche noi stavolta.
Ma alto tempo è quello di un atleta, in generale; di un calciatore in particolare: è il tempo dell’esistenza delle proprie aspirazioni, delle carte che il suo talento gli avrebbe permesso di giocarsi, quello che oggi viene negato a Nura. E a tutti coloro che, in modo scontato, staranno già dicendo che in fondo nella vita c’è di peggio, rispondiamo in modo altrettanto ovvio che sì, certo, c’è di peggio. A patto di non essere nati calciatori, destinati o predestinati addirittura; a patto di non aver iniziato a pensare da calciatori sin dall’infanzia, a vivere come tali, a immaginare con legittimità tutto quello che gli altri possono soltanto sognare.
A Nura un destino indifferente porta ora via anni che avrebbe ricordato a vita e che già si predisponeva a trascorrere, perché doveva essere la normalità di una carriera già venuta alla luce.
A proposito di luce: l’unica, in fondo a questo suo tunnel, sarebbe il gesto della Roma nei suoi confronti, se confermato (non abbiamo dubbi in proposito): prenderlo a bordo, non farlo uscire dal calcio nel momento in cui smette di essere Un calciatore.
Questo davvero farebbe bene al cuore di ogni romanista, non solo a quello di Nura, che adesso è in frantumi.

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