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ACCADDE OGGI… 30 maggio. Agostino sempre con noi!

Il 30 maggio è una data che i tifosi di una certa generazione non possono e non potranno mai dimenticare, per uno, dieci, cento motivi… Maledetto 30 maggio vorremo dire… Quello del 1984 che ci levò il sogno più alto della nostra storia, lo stesso 30 maggio che 10 anni dopo ci portò via il nostro capitano, Agostino di Bartolomei.

Ma cosi come ci teniamo stetti quella finale persa, cosi non possiamo e non potremo mai dimenticare il nostro capitano e per celebrare uno dei più grandi giocatori giallorossi ed autore protagonista del secondo scudetto giallorosso, vi proponiamo l’articolo scritto dal Prof. Paolo Marcacci sul numero 332 del Maggio 2014.


HALL OF FAME: Agostino Di Bartolomei
Nino non aver paura… di Paolo MARCACCI

Ci sono stati giocatori che hanno contribuito a scrivere la storia delle squadre in cui hanno militato; ce ne sono stati alcuni – un gruppo più ristretto – la cui immagine ormai si confonde con quella del club di cui hanno vestito la maglia; sono stati veramente rari, infine, quelli che con la loro presenza e il loro esempio hanno portato tanti tifosi a diventare di “quella” squadra: per l’ammirazione che hanno suscitato, per come si sono espressi in campo e fuori, perché si rivedono sempre con un misto di piacere e malinconia le immagini che li riguardano o perché vengono quasi gli occhi lucidi, ogni volta che si parla di loro. Agostino Di Bartolomei appartiene a questa élite ristrettissima, di calciatori e uomini rari. Anzi: di uomini che sarebbero stati rari anche se non avessero fatto i calciatori.

Figlio di una Roma tifoso che si sente protetto innanzitutto quella di Di autentica al punto tale da non aver nulla a che spartire né con gli stereotipi da cartolina, né con la macchietta ruvida e usurata della borgata usata e abusata dal cinema; Agostino Di Bartolomei da Tor Marancia era già giocatore, mentre ancora aspirava a diventare tale. È l’inconsapevolezza dei predestinati, quella che li porta a vivere ogni tappa che li avvicina al successo con la naturalezza con cui si sale un gradino. Non basta una canzone di De Gregori a raccontare di una passione nitida, mai bisognosa di compromessi, sempre arrivata prima degli allori, della notorietà, degli stramaledetti soldi. E poi nelle canzoni di De Gregori c’è l’ombra della paura accanto al dischetto di un rigore, mentre nella realtà di Agostino sempre e soltanto la voglia di tirarlo, la responsabilità che diventa obbligo.

Dev’essere per questo che ha sempre la stessa espressione concentrata e assorta, nelle foto e nelle immagini dei momenti che hanno scandito la sua carriera, a cominciare da quell’esordio di San Siro contro L’Inter, passando per quel primo goal all’Olimpico contro il Bologna e attraversando una galleria di maglie giallorosse, di gioie mai provate prima, di amarezze difficili da esternare. A testa alta e con la fascia al braccio, con un popolo dal suo esempio, dalle parole giuste sempre adatte all’occasione e mai sperperate per non dire poi nulla, specialità di quasi tutti gli altri calciatori.

La Roma che varca il confine tra gli anni settanta e gli ottanta, nella prima fase della presidenza Viola, è una società che comincia a percepire l’ebbrezza delle ambizioni; ha bisogno della giusta dose di personalità, affinché trovi anche la consapevolezza di poter aspirare a qualcosa che fino ad allora era stato impensabile. Un manipolo di grandi giocatori, di uomini che si ritrovano ad essere grande squadra laddove non c’era quasi mai stata, incarna il sogno. La stella di Falcao brilla più delle altre, Pruzzo semina goal e mugugni, l’estro di Bruno Conti è poesia mancina che si scrive sulla pagina della fascia opposta; personalità diverse, fatte anche di tanti spigoli, continuamente a rischio di collisione.

Diventano il gruppo di una Roma granitica proprio grazie a Di Bartolomei, al suo carisma silenzioso che olia gli ingranaggi costruiti da Nils Liedholm e fornisce l’esempio su quanto e come la Roma debba essere messa davanti a ogni altra considerazione. Per la stampa e per gli osservatori neutrali, quella squadra che si appresta a cogliere il suo alloro è soprattutto la Roma di Falcao; per i tifosi è Bartolomei, figlio prediletto e schivo della città; capitano nell’accezione più piena del termine. Il suo è sempre un calcio giocato in livrea, a testa alta, con i giri contati del pallone per ogni lancio o apertura a beneficio dei compagni; con le traiettorie secche e precise quando c’è da concludere a rete. Quasi che il modo di stare in campo debba rispecchiare la dirittura morale e lo spessore umano di Agostino, in un ambiente – quello calcistico italiano – che ha già conosciuto la sua prima deriva etica e comportamentale, con lo scandalo del calcio scommesse del 1980.

La classe, unita alla visione di gioco, sono anche e sempre la risposta migliore a chi ne critica – soprattutto nella seconda fase della carriera, dal Milan in poi per intenderci – i ritmi compassati e la presunta mancanza di dinamismo, in un calcio come quello nostrano, che sta per essere travolto – siamo nella seconda metà degli anni ottanta – dal ciclone sacchiano e dalla sua intensità atletica. E del giocatore che è stato rifulgono più vivide che mai ancora oggi le immagini, ancora più belle se pescate a caso dal cilindro della nostra memoria tifosa, quella dove nessun giocatore muore mai, neppure se lo vuole. Noi scegliamo quella del primo maggio 1983, terzultima di campionato all’Olimpico, la Roma capolista riceve l’Avellino. Al minuto cinquantasei, con i biancoverdi – già in svantaggio per una sontuosa punizione di Falcao – ricacciati all’interno della propria area, proprio il brasiliano sbroglia una matassa offensiva appoggiando, dal lato sinistro dell’area di rigore, un rasoterra per Di Bartolomei appostato all’altezza della lunetta. Agostino colpisce in maniera plastica, con lo scarpino destro che per un frammento di secondo rimane piegato con la punta all’ingiù, la posa che gli è usuale nel calciare. Le telecamere di “Novantesimo minuto” fanno fatica a stare appresso alla traiettoria, vista la (consueta) potenza con cui la sfera è stata colpita: è subito un fremere di rete, convulso, inarrestabile.

Ai ragazzini dell’epoca, restano impresse le immagini Rai che mostrano il pallone che continua a girare, impazzito, all’interno della porta. Il capitano si lascia andare a un’esultanza di rabbia e d’amore: prima corre con i le braccia larghe e i pugni chiusi rivolti verso il basso, poi si lascia scivolare in ginocchio sotto la “Monte Mario”, battendosi il petto. Con l’andare del tempo, avremmo capito ogni volta di più che questo è stato, e rimarrà, uno dei momenti di massima comunanza emotiva tra il pubblico della Roma e un suo giocatore. L’arrembante, picaresco Giampiero Galeazzi lo raggiunge sul terreno di gioco prima del calcio d’inizio e gli domanda, con metafora marinaresca, se la ciurma arriverà in porto.

Il Capitano risponde che in porto ci arriverà sicuramente, l’importante sarà arrivarci col vessillo: linguaggio non comune per un calciatore dei primi anni ottanta, e forse nemmeno di oggi. Una settimana dopo, sul terreno genovese del “Luigi Ferraris” di Genova, il giallorosso si fonde col tricolore: la Roma è Campione d’Italia. Nello spogliatoio dei giocatori romanisti, il delirio. Sempre Galeazzi, l’uomo- ovunque della Rai di allora, si accomoda con Di Bartolomei da una parte per chiedere proprio a lui – non solo in quanto capitano ma anche in quanto Agostino – di “tirare una linea”, stilare un bilancio dopo il grandissimo, storico traguardo appena raggiunto. “Ago”, con ancora indosso l’accappatoio umido, con il sopracciglio arcuato e l’espressione assorta, nel parlare fissa un punto imprecisato: lì convergono la soddisfazione per un titolo impensabile fino a qualche anno prima e la consapevolezza della grandezza non episodica raggiunta dalla Roma, dell’autorevolezza delle sue ambizioni.

Senza uscire dalla sua naturale compostezza, con il solito, inusuale linguaggio forbito, il capitano lascia comunque trapelare un grandissimo orgoglio. È un figlio di Roma che ha appena collocato i colori giallorossi sul gradino più alto del podio. Dev’essere per questo, per questo senso di appartenenza avvertito a pelle, per questa comunanza di valori che non si spiega, che i tifosi dell’epoca sentono Agostino più rappresentativo di altri giocatori, pur con la messe di fuoriclasse che quella squadra annovera. Quanto potremmo andare avanti? All’infinito, col rischio di sporcare i bei ricordi col ciarpame delle mezze verità, dei “non detto” che divengono cronaca e di tutto ciò che lasciamo a chi non può fare a meno di mestare nel torbido. Preferiamo lasciarci così, perché nessuno meglio di noi romanisti sa che il penultimo giorno di maggio è sempre il giorno sbagliato per battere un rigore, soprattutto contro se stessi.

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