ACCADDE OGGI

ACCADDE OGGI… 21 gennaio: 2019. 5 anni fa l’ultimo saluto a Manfredini

Esattamente 5 anni fa si è spento all’età di 83 anni l’ex centravanti Pedro Manfredini, per tutti “Piedone”.

Centravanti giallorosso dal 1959 al 1965, famoso oltre che per i suoi gol anche per il particolare soprannome, ‘Piedone’, ci ha lasciato nel gennaio scorso. Nella Roma ha giocato 130 partite segnando 77 gol e vincendo la Coppa delle Fiere nel 1961 (in una edizione della manifestazione, poi diventata Coppa Uefa, detiene il record di gol in una unica edizione con 12 centri).

Per chi non ha avuto la fortuna di vederlo giocare, vi proponiamo l’articolo scritto dal Prof. Paolo Marcacci uscito sulla nostra rivista nella rubrica ‘Schegge di Memoria’ (La Roma 350 – Maggio/Giugno 2016).


Nessuno ha mai parlato della solitudine del centravanti. Questa sensazione, riferita ai ruoli del gioco del calcio, fa subito venire in mente il portiere, col suo carico di pressioni e responsabilità che non può dividere con nessuno. In alternativa, viene in mente la solitudine dell ‘ala destra, che poi è il titolo del meraviglioso libro del poeta Fernando Acitelli.

Quanto può essere solitario colui che è il nemico per eccellenza degli avversari? Dietro ogni gol, dietro l’esultanza che libera gioia e adrenalina, c’è la fatica di averlo realizzato, di essersi procurati e procacciati l’occasione, di essere rimasti in piedi e aver resistito agli urti della veemenza e delle scorrettezze altrui. Il centravanti, come si dice spesso, vive per il gol; nessuno, mai, dirà che il centravanti in nome di quel gol sopravvive a tutto il resto.

È un concetto, questo, che si adatta benissimo al modo di vivere il calcio che hanno i sudamericani; non i brasiliani, però, con la loro contagiosa allegria che di quando in quando si affaccia sull’abisso, no: ci viene in mente un centravanti argentino, non altissimo ma segaligno e stempiato, che sarebbe potuto essere un ballerino di tango, invece di penetrare nelle aree di rigore con quella corsa particolare, che progrediva su leve lunghissime e seminava il panico da cui germogliava il gol.

Pedro Waldemar Manfredini, che nacque in mezzo alle Ande, nel distretto di Mendoza, aveva l’Italia nel cognome, ancora prima che nel destino: i nonni paterni erano di Cremona, quelli materni venivano da Bisceglie. Oriundo, predestinato. Il suo primo maestro, e anche questo rientra nella predestinazione, in effetti, fu Raimundo Mumo Orsi, che lo fece esordire nella compagine del Deportivo Maipù, il paesino in cui era nato il 7 settembre del 1935. La scalata al calcio che conta fu abbastanza rapida, perché le doti del ragazzo erano indiscutibili e il suo feeling con il gol innato, come l’avesse assorbito dal liquido amniotico, prima di nascere.

Il 1957 fu l’anno dell’esordio nella massima divisione argentina, con la casacca del Racing Club di Avellaneda. Il biennio ’57 – ’59 fu ricco di soddisfazioni e traguardi per Pedro Manfredini: il titolo nazionale vinto col Racing nel 1958 e, soprattutto, l’esordio nella selezione argentina con la vittoria della Coppa America del 1959, un trofeo che il paese intero vive e celebra con grandissimo orgoglio, perché – almeno nella percezione degli argentini – ristabilisce il predominio continentale della nazionale albiceleste, dopo le frustrazioni recenti vissute a causa del fantasmagorico Brasile del giovanissimo Pelè. L’attaccante di Maipù mette subito a segno una doppietta, nella gara d’esordio contro il Cile; alla fine del torneo avrà disputato tre partite e raggiunto la consacrazione definitiva sulla ribalta internazionale. Nel frattempo, è già finito sui taccuini degli osservatori di mezzo mondo, visto che col club di Avellaneda metterà a segno complessivamente 28 gol in 39 partite e, nel campionato in cui il Racing vince il titolo nazionale, si laurea capocannoniere con 19 reti.

Nell’estate del 1959 Manfredini arriva a Roma; 78 milioni di Lire l’investimento della società giallorossa in cambio dei suoi goal. Dopo la vittoria della Coppa America, ha subito sposato Ana Maria, ragazza della Capital federal ; al ritorno dal viaggio di nozze gli sposini ricevono una chiamata: – Pedro, ti ha acquistato la Roma -. Non è facile, alla fine degli anni cinquanta, cambiare continente da un giorno all’altro, per un giocatore; Manfredini però sa che il calcio italiano è l’approdo ideale per le sue prospettive di carriera.

A proposito di prospettive, la Città Eterna lo battezza ancora prima che ne tocchi il suolo: viene immortalato mentre scende la scaletta dell’aereo, dal basso verso l’alto e il suo piede, un comunissimo numero 43, immortalato in quella maniera appare enorme, quasi sproporzionato. Diviene all’istante, e per tutti, Piedone, soprannome che non lo abbandonerà mai, neppure a carriera conclusa. Soprannome che farà epoca e gli porterà fortuna. Il puntero che pensa solo al gol, che non partecipa alla manovra corale e che non ha alcun interesse per la bellezza del gioco, inizia la sua avventura italiana proprio nella fase di passaggio tra gli anni cinquanta e i sessanta.

È l’alba del boom economico, nell’aria si respira l’euforia di un consumismo ingenuo e sognatore; è fin troppo facile ipotizzare grandi prospettive di successo, di crescita illimitata. A pensarci bene, la Roma è la squadra che più di ogni altra, in Italia, incarna quello spirito sognatore, ottimista ma fin troppo effimero che regna nel paese. La squadra giallorossa ha una rosa zeppa di campioni tecnicamente dotatissimi, che sul terreno di gioco sanno essere belli fino a sfiorare, più d’una volta, il rischio dell’autocompiacimento. Fior di giocatori come raggio di luna Selmosson, Francisco Ramon Lojacojono, l’eroe del Maracanà Alcide Ghiggia; un grande portiere come Cudicini, un capitano destinato a divenire leggendario come Giacomo Losi: sono solo alcuni esempi dei compagni che Manfredini ha avuto durante i suoi sei anni in maglia giallorossa.

Eppure a quella squadra, che sa entusiasmare per alcune gare trascinanti e che incanta per la qualità delle giocate, come si dice a Roma manca sempre un soldo per fare una lira: lo scudetto era e resterà una chimera, la squadra giallorossa sembra frustrare se stessa e le proprie ambizioni sempre, sistematicamente, proprio nel momento in cui dà l’impressione di stare per spiccare il volo. In quel mix di grandi talenti, indolenza, scarsa abitudine alla lotta per il vertice, i gol di Manfredini non mancano mai, soprattutto fino alla stagione ’62 – ’63, che poi è quella in cui si laurea capocannoniere della Serie A, con 19 reti. La sua prima segnatura italiana arriva in occasione del primo utilizzo, quindi all’esordio nella Serie A: è la quarta giornata della stagione ’59 – ’60, al “Comunale” di Firenze si disputa Fiorentina – Roma; il tecnico giallorosso Alfredo Foni schiera finalmente Manfredini al centro dell’attacco. Al quinto minuto, dopo un’incursione sul lato sinistro dell’area di rigore, l’argentino batte Sarti in diagonale: benvenuto, Pedro.

La storia giallorossa è costellata di paradossi, in ogni epoca; alla Roma di Pedro ne tocca uno tra i più rari e particolari, per non dire unico: quella squadra, che in Italia riuscirà a portare a casa soltanto una Coppa Italia in sei anni, riesce invece a vincere in Europa, alzando al cielo la Coppa delle fiere, antenata della Coppa Uefa. Il contributo di Manfredini a quella conquista è decisivo: 12 reti, disseminate lungo tutto il percorso che porta alla finale dello Stadio Olimpico, contro il Birmingham.

È il principio d’autunno del 1961, nella finale di ritorno contro la squadra britannica, un’autorete di farmer e un gol di Pestrin consentono al capitano giallorosso Giacomo Losi di alzare il trofeo al cielo della Capitale; all’andata, in terra britannica, era finita due a due, con una doppietta di Manfredini, il quale nella semifinale contro gli scozzesi dell’Hibernian aveva messo a segno ben sei reti in tre gare: andata, ritorno e spareggio. Nel frattempo, la guida tecnica della Roma è passata da Foni all’argentino Carniglia; allenatore che concepisce il calcio come una dimensione dell’estetica, che persegue il bel gioco almeno quanto il risultato.

Manfredini è invece un attaccante che venera solo il dio del gol, uno la cui bussola punta solo il nord della porta. Possono andar d’accordo? No, e alla fine è il mister esteta che deve arrendersi, perché la Roma non può sacrificare il suo grande centravanti. Un centravanti che sarebbe stato ancora più grande, se non si fosse portato appresso un’entrata assassina di tale Jorge Griffa, che quando erano in campo a Mendoza gli sbriciolò il menisco, gli polverizzò i legamenti. Quanta carriera gli sarà costata quella vigliaccata? Non potremo mai dirlo, l’importante è che il suo nome, assieme al suo soprannome, risuonino nella storia romanista con echi di roboanti esultanze, con punteggiatura infinita di gol.

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