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RIVISTA LA ROMA. L’intervista: Massimo Wertmüller

“Da Cavaliere a Centurione” di Alberto MANDOLESI

«È mai possibile, una volta nominato Cavaliere, potersi trasformare fino a diventare un Centurione dell’antica Roma? Massimo Wertmüller c’è riuscito sulla scena del Teatro 7 insieme con Michele La Ginestra per recitare “Come Cristo Comanda”, la storia di due soldati romani dispersi nel deserto. Sono proprio quelli che hanno crocefisso Gesù, e stanno scappando dall’ira di Ponzio Pilato perché uno di loro ha creduto davvero che fosse il figlio di Dio, mentre l’altro lo ha seguito col compito di riportarlo indietro come ravveduto, oppure di tornare con la sua testa. Il problema, però, è morale, perché quei due sono grandi amici d’infanzia…

Ci accoglie con la sua proverbiale allegria nella sala ancora vuota, poco prima di una delle tante repliche che stanno registrando ripetuti “Sold Out”, e passando davanti al palco illuminato da un gioco di luci particolari ci immedesimiamo subito nell’atmosfera di duemila anni fa. Quello della Città Eterna è un argomento ricorrente nelle performances dell’attore romano e romanista che tante volte nella sua lunga carriera ne ha voluto raccontare la storia, ripercorrendola attraverso varie epoche e molteplici costumi. Per questa sua vera Romanità a 360 gradi, ha meritato il titolo di Cavaliere della Roma, consegnatogli nel 2014 presso la Sala del Coro dell’Auditorium della Conciliazione, e merita un posto d’onore nella galleria prestigiosa della nostra storica rivista. 

Da dove nasce il tuo amore per la Roma?
«L’amore per la Roma è nato innanzi tutto dal DNA, perché mia madre era una grande romanista. Probabilmente in culla ho detto Forza Roma prima ancora di esclamare la parola mamma. E poi perché Luciano Tessari, portiere della Roma negli anni ’50 e secondo di Liedholm negli anni ’80, era un amico di famiglia e mi fece un provino coi lupetti dopo il quale per una intera stagione andai ad allenarmi nello storico Campo Roma dietro via Sannio, indossando la  maglia giallorossa. Non restai più a lungo solo perché da bambino ero grassottello e c’erano altri bimbi più bravi e più veloci di me, ma certe emozioni e soprattutto quei colori non si possono dimenticare. Da quell’esperienza nacque l’amore per le piccole coppe vinte, per il fascino della bacheca, per i gagliardetti, per la storia e per i profumi che ancora oggi mi ricordano sia il campo che la sede della Roma».

Quali sono i tuoi primi ricordi, o la prima partita che hai visto?
«Più ancora che la prima partita ricordo la Roma di Falcão, gli anni dello scudetto vinto dopo 41 anni e la stagione della Coppa dei Campioni che ci portò al centro dell’attenzione internazionale. Quella, per me, è stata la Roma più forte di sempre. Una squadra che ha fatto sognare come non avevamo mai sognato prima».

Chi è stato il tuo primo beniamino?
«Innanzi tutto vorrei dividere la storia della Roma in ante Totti e dopo Totti, per ricordarti come il nostro capitano sia stato la Luce Assoluta per un quarto di secolo. Premesso questo, e dovendo risalire al mio primo vero beniamino, dico che per la romanità, per la sua grande classe e per l’estrema umanità, il mio primo beniamino è stato Bruno Conti. Di lui mi piacque il fatto che si commovesse per niente, e che piangesse sinceramente. Un altro uomo dai sentimenti profondi e travagliati, anche se molto più introverso, è stato Agostino Di Bartolomei, ma purtroppo tutti sappiamo a cosa lo abbia spinto questa sua enorme sensibilità».


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