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GAETANO ANZALONE… “Il piacere dell’onestà”

Oggi, nel giorno della sua scomparsa, vogliamo rendere onore all’ex presidente giallorosso Gaetano Anzalone e lo facciamo attraverso le parole del nostro Alfio Russo, uscite sul numero 355 della nostra storica rivista….


LA ROMA 355 – GENNAIO 2017
IO CHE AMO SOLO TE… di Alfio Russo

GAETANO ANZALONE “Il piacere dell’onestà”

“Mi sarebbe piaciuto tanto vincere qualcosa senza fregare nessuno e invece ho capito altre cose…” Così chiosava, a 35 anni di distanza dal suo congedo dalla Roma, Gaetano Anzalone che dell’enclave giallorossa era stato primo cittadino per la gran parte dei durissimi anni ’70. Roiate è il piccolo comune montano al confine tra le province di Roma e Frosinone in cui venne alla luce al sorgere degli anni ’30, quando già il padre si era imposto come brillante costruttore.

Sabato 27 luglio 1974, sulle colonne del “Messaggero”, Luigi Vaccari, nella sua rubrica “I mecenati del calcio”, lo tratteggiava così: medico mancato ma valente figlio d’arte che già a 18 anni ha appreso le tecniche del suo mestiere nella progredita Svezia e che oggi divide il suo tempo tra studio e cantieri (“mai palazzinaro, il mio lavoro è profitto ma anche dovere ferreo di disciplina, amore e rispetto verso il prossimo…”), laureato in Scienze Politiche, un gradevole rotacismo a renderne ancor più distinti i modi, innamorato perso delle sue Muratti come del mare, della sua famiglia – quanto lui lodevole nel dare concreta solidarietà ai ragazzi orfani della Seconda guerra Mondiale – come delle Mercedes, della sua antica casa come della nouvelle cuisine, della sua vanitosa ostinazione come di quegli storici colori difesi per la prima volta nel 1965 quando, sotto la presidenza di Franco Evangelisti, fece il suo ingresso nel Consiglio Direttivo dell’Associazione Sportiva Roma.

 

“Ma come? Adesso che ho composto l’invincibile inno per la grande Roma te ne vai?”. Destinatario di questa accorata supplica pronunciata da Antonello Venditti nell’autunno del 1974, era uno stanco ed avvilito Gaetano Anzalone, arrivato da poco più di tre anni sulla poltrona presidenziale della società giallorossa e per l’ennesima volta sprofondato nelle sabbie mobili della contestazione di tifosi e mass-media.

L’avvio di quella stagione 1974-’75 era stato il più tribolato della sua gestione – un solo punto in classifica e nessun gol a segno nelle prime cinque giornate – e la Roma, ancora lontana dall’exploit che di lì a qualche mese gli avrebbe regalato il miglior piazzamento in campionato degli ultimi vent’anni, rappresentava la sua croce interiore. E ora, proprio lui che si era fatto le ossa in piccole società dilettantistiche romane – dalla Star all’Ostiense che era stata sua per sette anni -, meditava di mollare. “Ma come? Adesso che…”.

Troppi dispiaceri, tensioni altissime, critiche ai limiti della decenza, tutto suonava insopportabile alla sua onestà. Fu in quel preciso istante che architettò il colpo d’ala che ancor oggi lo rende un padre unico nei suoi generosi eccessi. Scelse infatti di dimettersi da Vice Presidente di Lega e risposò la sua Roma, raddoppiando sforzi e calore, verve ed impegno. E’ stato così, da numero uno della società giallorossa, Gaetano Anzalone. Ma facciamo un passo indietro. Il suo nome figurava in calce all’atto costitutivo che faceva dell’AS Roma una SpA e, presenti insieme a lui nello studio del notaio Niccolò Bruno, in quel 16 febbraio 1967, comparivano come soci fondatori altri venti storici personaggi dell’entourage romanista, da Sacerdoti a Viola, da Evangelisti a Marchini, da Pasquali a Colalucci.

Come suo primo obbligo, Anzalone prese a cuore le sorti del settore giovanile romanista ma ne uscì nel giugno 1970 quando, sentitosi tradito dall’allora primo dirigente Marchini in merito al celeberrimo caso che coinvolse Capello, Spinosi e Landini (gli ultimi due pagati di tasca propria e portati a Roma proprio da Anzalone), i tre gioielli di casa svenduti alla Juventus, sbattè la porta giurando al suo anziano mentore sana vendetta per quell’errore di valutazione che faceva ripiombare la Roma nel suo atavico status di società immersa nel caos, segnata da dannosi compromessi, destinata a vivere terribili incognite, divisa da distanze siderali da quella intelligente programmazione, da quel costruttivo dialogo, da quel rinnovamento felice a cui Anzalone teneva particolarmente al di là dei conti sempre in rosso, costanti sgradite eredità tra un cambio al vertice societario e l’altro.

L’occasione per il giovane consigliere giallorosso si presentò irresistibile esattamente un anno dopo quando la cacciata del “Mago” Herrera dalla guida tecnica della Roma aveva finito per produrre guasti insanabili tra Marchini, tifoseria ed opinione pubblica, il cui consenso generale, mai nella storia goduto in modo così eclatante da alcun predecessore, catapultò Anzalone dalla voglia di emigrare verso l’Australia, la meta scelta per ricominciare, lontana anni luce da tutto ciò che rappresentava il suo mondo, alla più alta carica dirigenziale romanista.

Il suo era il nome, nuovo e passionale, che tutti volevano e la prima strategica risposta del neo-insediato a tanto propagandistico fervore fu il preteso ritorno di Don Helenio dal suo buen ritiro parigino alla panchina più rovente d’Italia. Il fresco sindaco giallorosso incoraggiò non poco la fondazione di nuovi Roma Club, diede un impulso notevole allo sviluppo del glorioso torneo Roma Junior Club, richiamò in società il mitico Vincenzo Biancone, nume tutelare e assoluta memoria storica romanista. Anzalone, nel fisico e nell’indole, incarnava alla perfezione il tifoso-doc, sanguigno quanto fragile e pieno di quelle stordenti emozioni che lo facevano viaggiare in perfetta osmosi con i sostenitori della Roma.

Era il presidente capace di non lesinare lacrime e svenimenti per la sua creatura ma nella realtà si rivelava un personaggio tutt’altro che molle e zuccheroso, anzi energico, caparbio e deciso a cavalcare l’onda tra le mille vicissitudini che sempre lo accompagnarono come ad esempio si evinse all’epoca a proposito del suo rapporto con le frange più accese del tifo. Suadente al fine dell’approvazione, salace e risoluto provocatore nei confronti degli obiettori, Anzalone non è stato un presidente vincente, la sua squadra non fu quasi mai pienamente degna del suo nome e della sua appassionata gente ma, a penalizzarlo fu anche la bizzarria di un impianto societario pachidermico. Basti ricordare che nel 1977, anno del cinquantenario della Roma, oltre a lui, figuravano due vicepresidenti, quattordici consiglieri e cinque (!) revisori dei conti – ah, gli amici! – a causare spese gestionali semplicemente folli, tradizione a dire il vero mai accantonata né prima né dopo, da abbinare agli ingaggi spesso faraonici versati ai giocatori. Così non rimanevano che pochi spiccioli per il rafforzamento tecnico e tanti dubbi su un futuro lastricato di carenze e apprensioni e quell’idea di grande Roma restò sempre chiusa nel cassetto sfiorendo tra rimpianti, amarezze, delusioni lancinanti.

Perversa compagna di ventura fu d’altronde l’immancabile, chirurgica iella che, con mano mai incerta, flagellò l’ambiente giallorosso sotto forma di pesantissimi infortuni e rapporti a dir poco problematici con i poteri forti del calcio e con gli arbitri di allora fino a rendere la Roma, alla mercè di ogni assurdo dazio, come la più vulnerabile e provinciale delle società metropolitane. Eclatante fu a tale riguardo quanto accaduto il 17 dicembre 1972. Quarta contro seconda in classifica, Roma e Inter, separate da due punti, ed entrambe all’inseguimento della Lazio capolista, si affrontano all’Olimpico per il match valido per l’11a giornata della Serie A 1972-‘73. Al 12’ passa la Roma con l’ex Cappellini, arriva poi il pareggio nerazzurro di Boninsegna. La Lazio sta perdendo a S.Siro nell’altra sfida di cartello contro il Milan, la Roma fiuta la grande occasione. Ad un minuto dal termine il parmense Michelotti fa il pasticcio giudicando da rigore un normalissimo intervento di Morini su Mazzola per giunta avvenuto fuori area. Lo stesso Boninsegna dagli undici metri trafigge Ginulfi. E’ il finimondo, un tifoso romanista invade il campo, arriva ad un passo dall’arbitro e cerca di fare giustizia sommaria mentre altri esagitati lo emulano. Michelotti ordina frettolosamente la ritirata, nell’aria si avverte immediato l’odore acre dei lacrimogeni sparati dalle forze dell’ordine per disperdere i facinorosi, fuori per tutti gli altri ci sono botte da orbi e cariche a cavallo. Sarà proprio Anzalone dapprima a cercare di calmare gli animi affrontando personalmente gli assaltatori più esasperati e poi a salvare il direttore di gara emiliano trasportandolo via dallo stadio a bordo della sua Mercedes ed evitando così sanzioni ancor più esemplari delle due giornate di squalifica comminate al campo. Sta di fatto che da quella domenica per altre dieci giornate la Roma non conoscerà più vittorie, radunando solo quattro punti, restando a secco per 943 infiniti minuti e scivolando a due punti dalla zona-retrocessione poi scampata per un soffio.

Gli otto campionati dell’era-Anzalone, al netto della magnifica medaglia di bronzo del 1975, parlano di un settimo, tre ottavi, un decimo, un undicesimo e un dodicesimo posto, quest’ultimo ottenuto proprio nella stagione conclusiva del suo mandato, partita tra squilli di tromba e chiusa in preda a dolori indicibili, ad un passo dall’umiliazione della discesa ma anche dal provvidenziale avvento di Dino Viola. Tutto era iniziato nel 1971-’72, stagione onesta di discrete soddisfazioni sebbene la principale preoccupazione di Anzalone, più che garantire nuovi acquisti, fosse quella di sanare il pesante bilancio passivo precedente. Del 1972-’73, Michelotti e Inter a parte, resta la consolazione della conquista del Torneo Anglo-Italiano, ancor oggi la seconda ed ultima manifestazione europea vinta dalla Roma nella sua storia, che davvero si perde nella sguarnita bacheca dei trofei.

Della stagione successiva, prima volta sulla panchina giallorossa di Nils Liedholm, indiscutibilmente destinato a diventare l’allenatore più importante della nostra storia, dopo l’esonero finale dell’ex-alleato Herrera e le effimere parentesi di Tonino Trebiciani e del “filosofo” Manlio Scopigno, sarà forse sufficiente ripensare a quale formazione finì per laurearsi Campione d’Italia per avere un quadro eloquente della depressione in casa Roma. Il terzo posto del 1975, protagonisti su tutti l’invalicabile Paolo Conti, il sontuoso Santarini, il velocissimo Rocca, l’elegante Cordova, l’implacabile Prati e il glorioso De Sisti, a 31 anni cavallo di ritorno, sembrava finalmente autorizzare scenari gratificanti ma quello che stava per iniziare sarebbe passato alla storia della Roma come l’”anno della purga” dovuta ai mille contrasti e alla strisciante anarchia che sfociarono negli addii eccellenti della cosiddetta “Rivoluzione di luglio”.

Trovò la sua fine anche il controverso, incendiario rapporto del presidente con Ciccio Cordova, che dopo nove anni in giallorosso, rifiutò il trasferimento ormai fatto al Verona per riscattare personalmente il suo cartellino e, tremenda ripicca, accasarsi alla Lazio. Era il 1976 e quell’inatteso repulisti intrapreso da Anzalone, rivisto con la consapevolezza di oggi, rappresentò forse l’atto più coraggioso che mai fosse stato deciso dai tempi del primo scudetto romanista, messo in atto per salvare quella che, con immane goduria dei detrattori, veniva in modo odiosamente becero e dispregiativo definita “Rometta”. Via dunque quegli elementi che di lì a breve, che fosse una circostanza fortuita o più verosimilmente annunciata, si sarebbero distinti più nelle aule di qualche tribunale che sui campi di calcio, si inaugurava, con la benedizione dei pochi senatori mantenuti, la linea verde, quella della Roma ai romani, immortale pallino anzaloniano che però all’epoca non ricevette che feroci stroncature da parte dei critici che gelidamente la bollarono con perfido sarcasmo “arte del declassamento e dell’involuzione, politica da pizzicagnolo, provincialata, ritorno a modesti obiettivi di borgata, fondazione di una squadra dopolavoristica”.

Di fatto, con Giagnoni in panchina, la Roma non guarì, ripiegata sul suo destino gramo e mediocre, senza mai grossi scossoni, capace sì di isolate sorprendenti imprese ma specialmente di tonfi fragorosi, mai pienamente in grado di assecondare i desideri di tifosi impagabili e le attese di sopite eterne tradizioni. Era la Roma dal doppio volto, quella di Anzalone, che di rado tra le mura amiche concedeva sconti, realizzando in 120 gare casalinghe 58 vittorie e 41 pareggi a fronte di sole 21 sconfitte ma che in trasferta invece soffriva di reiterate, imbarazzanti amnesie tanto da mettere insieme in quegli otto anni la miseria di 17 successi perdendo la metà secca degli incontri disputati. Era però la stessa Roma che cercava, se non a livello di risultati almeno di strutture, la ragione di esistere nel suo frenetico, talvolta forse eccessivo rinnovarsi. Fu il Centro Sportivo di Trigoria il fiore all’occhiello di questa politica, l’ambizioso progetto a cui Anzalone diede sostanza malgrado le immancabili beghe burocratiche, le intrusioni politiche e i malcelati conflitti d’interesse. Non bastarono fortunatamente i capricci degli organi competenti a vietare al presidente di festeggiare la nascita e lo sviluppo di uno degli impianti più belli, dotati e moderni al mondo.

La Roma aveva trovato per sempre la sua casa. In quegli anni inoltre il calcio imparava a modificare i suoi rapporti con l’esterno e Anzalone, imbeccato dall’ottimo Gilberto Viti, complice un viaggio negli Stati Uniti dove sport e affari procedevano già da tempo amabilmente a braccetto, seppe cogliere al volo l’attimo, dando vita al primo vero effetto-marketing in Italia. Nacque dall’estro del graphic designer Piero Gratton il famoso lupetto stilizzato e con esso venne intessuta una fitta organizzazione commerciale tesa alla diffusione capillare e al merchandising legato al marchio-Roma, praticamente reinventato e reso più al passo con le nuove e spesso fin troppo ardite esigenze.

A dar linfa alle finanze societarie contribuì l’emanazione del Partner Roma Club che, grazie alla vendita di 500 abbonamenti decennali di Tribuna d’Onore Centrale dello Stadio Olimpico, fruttò la bella cifra di un miliardo e mezzo di lire. Nessuno avrebbe potuto prevedere, in quella torrida estate 1978, che per Gaetano Anzalone fosse ormai prossimo il canto del cigno sebbene quel fermento legato all’immagine avesse finito per investire perentoriamente anche la sfera tecnica e dirigenziale. L’assunzione in organico di Luciano Moggi, padrone delle cose del calcio per i trent’anni a venire, e del Professor Ernesto Alicicco, responsabile sanitario ed eccellente professionista, un altro eroe della nostra storia grazie ai suoi 21 anni di militanza in giallorosso, l’ingaggio di Roberto Pruzzo, pietra miliare per i successi che di lì a poco la Roma avrebbe conseguito in Italia e nel mondo, strappato a suon di miliardi alla corte di società ben più in salute, il ritorno alla base del suo “figliuol prodigo” Spinosi per il quale il presidente, otto stagioni prima, aveva combattuto autentiche battaglie e non ultima la conferma quasi integrale dei pezzi da novanta della rosa romanista. Tutto fu vano per una Roma presa a sassate, stretta al cuore, vilipesa e inerme, incapace di soffrire e incredula lei stessa per tanto sfacelo, mortificata da equivoci tattici e liti quotidiane, malata di guai insondabili e in amaro disequilibrio tra la sopravvivenza e la fine di ogni cosa.

L’incubo si dissolse solo a poche giornate dalla conclusione di quel tribolatissimo campionato 1978-’79, grazie all’ingegno del vecchio maestro Ferruccio Valcareggi e di Giorgio Bravi, romanistissimo creatore dell’unico reale miracolo produttivo dell’era-Anzalone, quella splendida Primavera che dettò legge portando nella Capitale tre scudetti e due Coppe Italia e sfornando campioni del calibro di Rocca, Di Bartolomei e Bruno Conti (questi ultimi due con Tancredi e Pruzzo, approdati alla Roma nell’ultimo biennio della presidenza anzaloniana, avrebbero costituito per quattro undicesimi la meravigliosa squadra del secondo tricolore allenata da Liedholm). Era il 6 maggio 1979 quando il lampo rapinoso e benedetto di Pruzzo contro l’Atalanta, nel vecchio, bollente, stracolmo Olimpico, significò salvezza e si guadagnò per sempre un posto d’onore nella memoria di ogni vero tifoso della Roma prima che la stagione declinasse nello squallore dichiarato dell’ultimo pareggio strappato ad Ascoli, bottino triste e magro ma indispensabile ad evitare in extremis cattive sorprese.

Tre giorni dopo quel mesto epilogo il supertifoso Gaetano Anzalone stava per uscire per l’ultima volta dal cancello della sua Trigoria. Piegato ma mai vinto dal tempo e dalle tante tempeste, portava via con sé la croce di entusiasmi mai goduti e spenti nella rabbia e, lasciandosi andare ad un pianto leale e profondo come il suo amore per la Roma, consegnava al suo successore una considerevole eredità di idee e azioni. Scorrevano i titoli di coda. “Ho sbagliato e pago”, le parole dell’addio. Nessuno stavolta gli chiese di restare e da allora la figura di Gaetano Anzalone aleggia nel limbo dei ricordi concedendosi nulla più che rarissime apparizioni. Eppure prima di lui soltanto Renato Sacerdoti aveva occupato più a lungo la poltrona presidenziale.

Presto una spessa coltre di vergogna avrebbe finito per oscurare il calcio italiano ma la sua Roma, che lui aveva protetto e salvato dall’onta più infamante, non conobbe mai il buio e anzi fu avviata verso un periodo luminoso e carico di onori nelle mani serie e sicure di Dino Viola, al quale dopo un anno di tentennamenti e rimandi Anzalone cedette saggiamente la proprietà, e che strappò quei cuori alla rassegnazione cullandoli al suono di dolci conquiste. Quelle stesse gioie che oggi tutti riconosciamo anche come figlie di quegli anni complicati e violenti e di quell’uomo cortese, rigoroso e combattivo, orgoglioso, puro e sfortunato, coraggioso, tenace e passionale, sorridente, sensibile e soprattutto così straordinariamente romanista da meritare i nostri sinceri ringraziamenti oltre a questo affettuoso tributo.

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